Prodotti ortofrutticoli
AGRUMI DELLA COSTIERA AMALFITANA
La penisola sorrentino-amalfitana rappresenta un mirabile esempio di come il paesaggio agricolo possa caratterizzare un’area geografica.
Col dolce degradare delle terrazze fiorite, le caratteristiche <<pagliarelle>>, il suggestivo contrasto di colori tra il verde delle foglie degli agrumeti e l’azzurro del mare, il profumo penetrante delle zagare, fanno della costiera sorrentino-amalfitana un paesaggio unico nel suo genere. E’ questo “il paese dove fioriscono i limoni”, la cui bellezza è stata tanto ammirata da poeti ed artisti di tutti i tempi.
Di sicuro si sa che essi erano già conosciuti all’epoca dei Romani, come dimostrano alcuni mosaici ed affreschi di Ercolano e di Pompei. Gli agrumi interessarono in un primissimo tempo per le loro qualità estetiche ed aromatiche e furono coltivati come piante ornamentali.
Inizialmente questo agrume si diffuse soprattutto nelle località di Minori e Maiori, per quanto riguarda il versante salernitano della penisola, e in quelle di Sorrento e Massa Lubrense, per quanto riguarda il versante napoletano. In particolare, sembra che la limonicoltura a Massa debba la sua nascita ai gesuiti, che nel 1600 in un’ex proprietà della Regina Giovanna nella Conca di Guarazzanno, crearono un'azienda specializzata nel fondo chiamato “Il Gesù”, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione di questa coltura in tutto il comprensorio.
Per proteggere le piante da avversità atmosferiche, si rese necessario coprire le piante con particolari pergolati, su cui venivano montate le <<pagliarelle>>: stuoie fatte di paglia legate con delle strisce di castagno, larghe circa due metri, collocate su pergolati costruiti con pali di castagno, di cui quelli verticali sono detti <<allirti>> e quelli orizzontali <<correnti>>.
Fra le varietà di limoni più diffuse su entrambi i litorali, si ritrovano ecotipi locali rustici che ben si adattano alle condizioni pedoclimatiche della zona. Sulle colline di Massalubrense e sulla piana di Sorrento è diffuso un Femminello comune con frutti di pezzatura medio-piccola, colore giallo chiaro, succo abbondante e profumato, detto anche “Limone Ovale di Sorrento” o “Limone di Massalubrense”. Si tratterebbe di una pianta derivata dall'attuale “Femminello Ovale”, detto anche “Ruvittaru”. Il “Limone di Sorrento” sembra conservare le caratteristiche principali di questa varietà esaltando alcuni aspetti di particolare pregio quali il profumo intenso, accresciuto, strofinando la buccia, la polpa particolarmente dolce e succosa, la scarsa presenza di semi.
Il limone coltivato in costiera amalfitana è lo Sfusato d’Amalfi, anche in questo caso sembra si tratti di un ecotipo locale, derivato, in origine, dalla varietà “Femminello Sfusato”, detto anche “Femminello di Ravazzina”. Il succo che si ottiene dai limoni amalfitani è tradizionalmente considerato più adatto come condimento di quello di altri limoni in quanto più profumato, più saporito e più acido.
Nella zona di Sorrento è coltivato soprattutto il limone di Sorrento, detto anche <<Limone Ovale di Sorrento>>. Profumo intenso, polpa particolarmente succosa.
Aziende produttrici
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Solagri Società Cooperativa
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Albicocca Vesuviana
E’ coltivata nella maggior parte dei comuni compresi nel Parco Nazionale del Vesuvio, dai 50 metri sul livello del mare fino alle pendici del monte Somma.
Grazie alle proprietà minerali e all’esposizione dei terreni del vulcano, l’albicocca del Vesuvio è un frutto con ottime qualità nutrizionali e gustative.
Tra le varietà più conosciute ricordiamo: Boccuccia liscia, Boccuccia Spinosa, pellecchiella, Nennella, Cafona ecc. che rappresentano il meglio della più importante area albicocchicola del mediterraneo, caratterizzata da una vastissima popolazione di tipi di albicocche costituitasi dopo secoli di coltivazione, un grande patrimonio naturale e culturale, oltre che produttivo.
Cenni Storici
Alcuni attribuiscono già a Plinio il Vecchio (morto a Castellammare di Stabia il 79 d.C. durante l'eruzione del Vesuvio) un riferimento della presenza dell'albicocco alle pendici del Vesuvio, ma la testimonianza della coltivazione con successo nell' area risale al 1500. Infatti la prima chiara descrizione agronomica dell'albicocco è attribuibile allo scienziato napoletano Gian Battista Della Porta che, nel 1583, nell'opera “Suae Villae Pomarium” divide le albicocche in due gruppi, le bericocche, di forma rotonda e pasta bianca e le chrisomele, dal greco mele d'oro, più pregiate, di aroma soave e buon sapore. Al maggior pregio di queste ultime, è attribuibile l'identificazione, nel dialetto napoletano, delle crisommole con le albicocche.
La maggior parte della produzione è destinata al consumo fresco, una piccola parte viene trasformata per la realizzazione di pregiate marmellate.
Per l’albicocca vesuviana è in corso l’istruttoria per la registrazione quale Indicazione Geografica Protetta (IGP).
Carciofo di Paestum
E' la varietà che cresce bene solo all'ombra dei templi, nei campi della piana di Eboli – Capaccio, è detto anche “Tondo di Paestum” per la caratteristica forma tondeggiante dei capolini, che presentano altri due importanti elementi di tipicità: la compattezza e l'assenza di spine nelle brattee.Ogni pianta produce circa 5-6 capolini nel periodo compreso tra febbraio e maggio.
Come attestano gli scritti di alcuni autori antichi (De Rustica di Columella e Naturalis Historia di Plinio), il carciofo (Cynara scolymus) era già conosciuto all'epoca dei Romani.
E’ un vero toccasana per il fegato, ricco come è di sali minerali e vitamine. Contiene inoltre un principio attivo, la cinarina (che viene inattivato dalla cottura), che favorisce la diuresi e la secrezione biliare, quindi, quando sono giovani e teneri, è consigliabile mangiarli crudi, tagliati a fettine, conditi con olio, limone e qualche fogliolina di menta.
Il carciofo di Pietralcina
Distante solo pochi chilometri da Benevento, Pietrelcina è un’antica cittadina sannita, nota per aver dato nel 1887 i natali a Padre Pio.
Il paesaggio che circonda Pietrelcina è dolce, aperto, con ampie distese coltivate per lo più a grano e tabacco. Fino al secolo scorso, si può dire che questa zona, come d’altronde tutto il beneventano, era una terra avara di acqua irrigua, quindi, da un’orticoltura povera. Tuttavia alcuni prodotti ortivi divennero vere e proprie specialità, come i rinomati peperoni di Montesarchio, le cipolle di Bonea, le rape di Morcone, i carciofi di Pietrelcina. Con l’affermazione e la forte espansione della coltivazione del tabacco, che diventò una notevole risorsa economica per i contadini, queste già poche colture ortive, che per lo più erano destinate all’autoconsumo, furono del tutto spazzate via. L’unica a resistere, sebbene confinata in un’area molto più ristretta, è stata appunto quella del carciofo di Pietrelcina.
Oggi sopravvive solo in alcune contrade, dove sembra, che le peculiarità pedo-climatiche riescano ad imprimervi caratteristiche di gran pregio. In particolare, pare che i migliori si producono nella zona di <<Coste>>.
Molto apprezzati e richiesti sui mercati della vicina Benevento, i carciofi di Pietrelcina, seconda una vecchia usanza, si confezionano a mazzi: ogni mazzo è composto da quattro mammarelle, cioè i capolini centrali, detti anche cimarole, legate con dei giunchi. Questi, in dialetto vinchi, ancora oggi si raccolgono, come una volta, lungo le sponde del vicino fiume Tammaro. L’operazione di legatura è detta ammazzamento.
Consapevoli dell’importanza di questa coltura, principalmente se si considera la crisi in cui versa attualmente il settore della tabacchicoltura, dal 1976 i pietrelcinesi ne promuovono la diffusione attraverso una sagra, che si tiene ogni anno, a maggio. Questa, oltre ad essere un’occasione di incontro e di svago, rappresenta anche un momento propizio per le vendite, in cui viene collocata una quota non indifferente di prodotto. Durante la sagra è possibile assaggiare i carciofi, cucinati in diversi modi: un tipico piatto locale sono <<le tagliatelle al ragù di carciofo>>.
Il carciofo, pianta molto antica, è ricco di sostanze nutrienti, contiene la cinarina, un principio attivo che sembra sia diuretico, disintossicante ed efficace nelle terapie delle affezioni epatico-biliari. Inoltre, pare che faciliti l’eliminazione della colesterina.
Nella concimazione della coltura, a pietrelcina si fa ancora ricorso ad abbondanti letamazioni. Per quanto riguarda la lotta chimica, questa in nessun caso è stata rilevata. Anche per allontanare le arvicole, che rappresentano spesso un vero flagello, non si fa ricorso ad alcun mezzo di lotta se non quello, in verità molto antico, di stanarle ed ucciderle.
Si potrebbe quindi dire che quella del carciofo di Pietrelcina è una coltura <<biologica>>.
Prodotti complementari
Il carciofo produce alla sua base un gran numero di germogli, detti comunemente carducci che vengono piegati, legati e ricoperti con della terra, i tessuti cresciuti in assenza di luce, presentano una consistenza carnosa, sono poveri di fibre indurite e presentano una colorazione biancastra.
A Benevento questa verdura, conosciuta con il nome di <<cardone>>, è molto richiesta nel periodo natalizio ed utilizzata come ingrediente fondamentale in alcune minestre di sapore molto delicato che ricorda quello dei carciofi.
Nella zona di Pietrelcina vive la tradizione di preparare carciofini sott’olio, questa è un’attività familiare, intrapresa solo per soddisfare le esigenze di autoconsumo.
La castagna di Montella
IL castagno oggi, allo stato spontaneo, è una pianta tipica della flora mediterranea le cui origini sono molto antiche. Secondo alcuni reperti fossili la sua presenza nel nostro continente può essere fatta risalire sin dall’Era Cenozoica. Il castagno coltivato, secondo le tradizioni greche, è originario della città di Sardi, in Lidia;
da questa regione le castagne furono importate in Grecia, dove erano conosciute con il nome di ghiande sardiane, mentre il termine marrone deriva, secondo alcuni studiosi, dalla località di Marronea nella Tracia. Chiamate dai Greci, per la loro prelibatezza, “ghiande di Giove” o “noce dell’ Eubea” erano molto apprezzate anche dai Romani.
Quest’albero ha fornito nel passato non solo frutti, ma anche legname per fare carboni e legna da ardere. Nella zona del Faito abbiamo questi boschi cedui di castagno che servono per fare pali utilizzati per le coperture dei limoni di Amalfi e degli agrumi di Sorrento.
Nel passato ha costituito la principale fonte di sussistenza per intere comunità rurali.
In Campania il castagno è parte integrante del paesaggio irpino, che grazie alla felice interazione tra suolo, clima, varietà, produce un frutto di grandissima qualità merceologica e organolettica. Tra i diversi tipi di castagna prodotti nella provincia di Avellino, tutti di qualità elevata, va ricordata la
Castagna di Montella, cui, nel 1987, fu riconosciuta la Denominazione d’Origine Controllata, riservata ai frutti derivanti almeno al 90% dalla varietà Pallumina e per il restante 10% da altre varietà ed in particolare dalla Verdola.
Essa è prodotta nei comuni di Montella, Bagnoli Irpino, Cassano Irpino, Montemarano, Nusco e Volturara Irpina.
La castagna di Montella, oltre ad essere commercializzata fresca, è utilizzata anche per preparare le famose castagne del prete, dal delicato sapore affumicato, oppure i marrons glacès, o semplicemente le castagne essiccate.
Di grande interesse è anche la Castagna di Serino. Con questo nome si indicano prevalentemente due varietà: la Montemarano e la Verdole. Prodotta nella valle del Sabato e nelle zone limitrofe, e dotata di notevoli qualità organolettiche, è apprezzata, in particolare, per le grandi dimensioni.
Castagna di Serino
Storia
Nella denominazione "Castagna di Serino" si comprendono due specie : la "Montemarano" e la "Verdole". La prima, detta anche "Santimango" o "Marrone di Avellino", è considerata dagli esperti tra le migliori varietà italiane soprattutto per le caratteristiche di pregio dei suoi frutti. La "Verdole" assolve soprattutto alla funzione di varietà impollinatrice, anche se in molte valli a quote basse del Serinese essa rappresenta la cultivar prevalente in quanto più resistente alle nebbie e alle crittogame. I suoi frutti sono di pezzatura media (media 69-75/kg), più tondeggianti e più brillanti.
La diffusione dei primi castagneti in Campania e in particolare nei Picentini viene fatta risalire al periodo fra il XI ed il XII secolo, ad opera dei monaci Benedettini,
Area di produzione
L'area di produzione della "Castagna di Serino", è individuabile nei territori dei comuni di: Serino, S.Lucia di Serino, S.Stefano del Sole, Sorbo Serpico, Salza Irpina, Solofra, Montoro Inferiore e Superiore, Chiusano S.Domenico, S. Michele di Serino e Contrada in provincia di Avellino; Baronissi, Calvanico, Castiglione dei Genovesi, Giffoni Valle Piana, Giffoni Sei Casali, Mercato S.Severino, S. Cipriano Picentino e S.Mango Piemonte in provincia di Salerno.
Il fico del Cilento
Il fico, conosciuto da tempi remoti, da sempre è stato componente essenziale della solare cultura mediterranea.Nella zona di Acropoli, nel periodo della raccolta, c’erano almeno 400-500 donne che lavoravano a tempo pieno da 3 a 4 mesi, a seconda delle annate. Una volta raccolti, i fichi venivano messi su graticci di ginestre e fatti essiccare al sole per 3-4 giorni, rigirati quotidianamente, operazione questa che andava fatta in coppia, e le coppie potevano rimanere legate anche tutta la vita.
Successivamente le stuoie passavano alla <<Passolara>>, luogo di raccolta e di cernita dei fichi, fatta di tavole di legno di 3-4 metri, e su cui queste si adagiavano. Di notte quando il tempo si metteva al brutto, l’incaricato di turno, suonava un corno detto <<tofa>> per dare l’allarme, perché si ritirassero i fichi.
Oggi, nel Cilento, le varietà più diffuse sono il fico Dottato (90%), il fico Troiano, il fico Melanzana, del fico Colombra ce ne sono solo rari esemplari.
L’area di produzione
Tradizionalmente l’area di produzione del Fico del Cilento si fa coincidere con il territorio del Monte Stella, con parte del bacino dell’Alento, con alcuni comuni della valle del Calore salernitano e la parte collinare del comune di Capaccio.
Comuni di Agropoli, Ascea, Casalvelino, Castellabate, Montecorice, Ogliastro cilento, Stella cilento ecc. per la zona dell’Alento e Monte Stella, nonché i comuni di Albanella, Altavilla Silentina, Capaccio, Roccadaspide, Serre ecc. per una sub-area definibile come “Calore –Sele” contigua con la precedente area.
Raccolta e lavorazione
La raccolta destinata al consumo fresco avviene a più riprese a seconda dell’andamento stagionale e di solito va fatta tutti i giorni, mentre il fico destinato all’essiccazione, va raccolto ogni otto giorni. I fichi mondi (così denominati perché vengono fatti essiccare senza la parte esterna) si raccolgono al momento giusto della maturazione, cioè prima dell’avvizzimento, in quanto dopo sarebbe più difficile togliere la buccia.
Il fico destinato alla trasformazione viene raccolto quando è iniziata la fase di disidratazione ed il frutto prende la forma ed il nome di <<moscione>>. I peduncoli si staccano facilmente dalla pianta ed i fichi vengono adagiati su stuoie di ginestre ed esposti al sole dove rimarranno per 3-4 giorni, quotidianamente rigirati, a completare l’essiccazione. Successivamente passano alla <<passarola>>, luogo di raccolta e cernita dei fichi, da cui si differenziano le seguenti produzioni: a) moscione; b) mezzofico; c) taccione o fico macchiato perché troppo ricco di acqua; d) fichi rossi o al forno destinati all’autoconsumo; e) lo scarto destinato ai maiali o all’industria di distillazione. Il fico mondo (detto anche fico fiorentino perché in passato il mercato di Firenze assorbiva la maggior parte di questa produzione) viene essiccato con la stessa tecnica adoperata per gli altri fichi.
Una volta completato il processo di essiccazione, i fichi vengono inviati nei laboratori di trasformazione per ottenere:
1) fichi mandorlati;
2) fichi mandorlati e ricoperti di cioccolato;
3) fichi di prima qualità "moscione" destinati alla vendita in confezioni in
scatola o ceste;
I fichi destinati alla farcitura, una volta scelti, vengono aperti uno per uno; quelli sani vengono farciti con una mandorla o una noce.
Una volta farciti vengono messi in grosse teglie e cotti al forno per 10 minuti a 250 gradi. Raffreddati e tolti dal forno, sono inviati al reparto confezionamento dove vengono disposti in cestini da 250-500 grammi.
Anche per la preparazione dei fichi al cioccolato, questi vengono aperti uno per uno (oppure non vengono aperti per scarsa disponibilità di manodopera) e ricoperti di buon cioccolato fondente, di buon surrogato, o mediocre surrogato. Usciti dal tunnel refrigerante sono pronti per la confezione in cestini o scatole di cartoncino o fazzoletti di cellophane di diversa misura e peso.
Nell’area flegrea, per indicare un fico di prima scelta <<il moscione>>, si usa il termine <<pupatella>>, aggettivo riservato alle belle ragazze.
Mela annurca
A prima vista, chi non l’ha mai gustata, non la sceglierebbe in mezzo ad altre varietà di mela più appariscenti e lucide.
Ricca di fruttosio, con un tasso di cellulosa dello 0,9%, concentrato per lo più nella buccia, esalta le qualità digestive graduando l'assorbimento del glucosio è di grande beneficio per i diabetici. Abbassa il colesterolo nel sangue perchè ostacola il suo assorbimento mediante il fitosterolo e la pectina che rendono il colesterolo alimentare inassimilabile.
Da quanto esposto consegue che
"non v'è niente di meglio di una mela annurca".
La La mela annurca continua ad essere, ieri come oggi, il fiore all’occhiello della melicoltura campana, è una varietà molto antica, tanto da essere riconoscibile in alcuni dipinti pompeiani, ed in particolare in quelli della Casa dei Cervi, ad Ercolano. Anche se si produce in gran parte della regione.
L’Annurca è originaria dell’agro puteolano.
L’Annurca leader della produzione regionale fino alla seconda guerra mondiale, è passata negli anni 50 ad un ruolo del tutto marginale, fino ad essere quasi dimenticata negli anni 60-70, quando presero il sopravvento le cultivar americane.
Da qualche anno, tuttavia, grazie alla capacità di alcuni produttori che hanno saputo anticipare le nuove tendenze in campo alimentare, rivolte alle cose genuine e tradizionali, e conciliare tradizione e innovazione tecnologica, l’Annurca sta tornando agli antichi splendori.
Il melaio
Gli aspetti che connotano fortemente la tipicità dell'annurca sono il tradizionale metodo di coltivazione e produzione e le sue caratteristiche morfologiche.
La mela annurca è caratterizzata dalla presenza di un peduncolo corto e piuttosto debole. Quando i frutti si accrescono cominciano a esercitare una pressione via via crescente sul rametto, sino a quando il peduncolo cede provocandone la caduta.
Nella fase prossima alla maturazione questo processo di cascola diventa molto accentuato, e diviene così necessaria la raccolta anticipata delle mele per evitare che i frutti cadendo possano subire lesioni o ammaccature. In questo modo, però, i pomi sono ancora in gran parte verdi e non troverebbero una collocazione remunerativa sui mercati.
Al fine di fare acquisire ai frutti la tipica colorazione rossa le mele Annurche vengono tradizionalmente stese in melaio.
Durante la permanenza nei melai le Annurche vengono periodicamente rigirate ed accuratamente scelte, scartando i frutti intaccati o marciti.
Verso la metà di dicembre la permanenza in melaio può considerarsi conclusa e i frutti, pronti per la commercializzazione o la conservazione, vengono disposti nelle cassette e avviati alle celle frigorifere.
Area prevalente di produzione
Le zone tradizionalmente legate all’Annurca sono l’area Giuglianese-Flegrea in provincia di Napoli; il Casertano-Maddalonese, l’Aversano e il Teanese in provincia di Caserta; le pendici del Taburno e le valli Gaudina e Telesina in quella di Benevento.
Epoca di produzione
L’epoca di raccolta della mela Annurca si individua nella seconda decade del mese di ottobre, la fase di arrossamento nei melai si protrae per circa due mesi. Giunti alla metà di dicembre la massa delle mele, tutte di un bel colore rosso, viene preparata per il consumo o per la conservazione che, in alcuni casi, può prolungarsi sino all’estate dell’anno successivo.
La nocciola tonda di Giffoni
In Campania il nocciolo è presente da tempi immemorabili, rappresentato in diversi dipinti pompeiani ed ercolanesi “Casa dei Cervi”.
Anticamente in campania le nocciole, dopo essere state affumicate o tostate, venivano conservate sotto la sabbia, come si può leggere in un testo di agricoltura pratica edito a Napoli nel 1835: <<le nocelle si conservano sotto all’arena fino ad Aprile. In Maggio, o in Giugno si mettono al fumo come le castagne, o pure nel forno: dopo si rompono, e s’infilza nel filo bianco, con appendere quelle corone in stanza asciutta: tali sono le antrite, così dette volgarmente>>.
Anche se storicamente, la zona d’elezione del nocciolo è l’avellinese, nel salernitano, ed esattamente nelle valli dell’Irno e del Picentino, è presente una antica varietà di nocciola, detta Tonda di Giffoni, che merita un’attenzione particolare. Molto apprezzata per il sapore particolarmente gustoso. Diffusa nei comuni di Acerno, Galvanico, Fisciano, Giffoni Sei Casali, Giffoni Valle Piana ecc. La coltivazione interessa prevalentemente le aree collinari e della media montagna fino a circa 600m. s.l.m.
Le nocciole destinate all’industria sono utilizzate soprattutto per la preparazione di prodotti dolciari. Intere o sminuzzate, ridotte in polvere o trasformate in pasta esse vengono usate per farcire torte, biscotti e pasticcini; sono buonissime unite al cioccolato per formare torroni, gianduiotti, croccanti, gelati.
Pomodorino di Corbara
L’area di origine del pomodoro di Corbara o Corbarino è quella delle pendici dei monti Lattari, sia sul versante costiero (Costiera amalfitana, Penisola Sorrentina) sia sul versante interno (confine sud della valle del Sarno), dove si trova il comune di Corbara e sulle cui colline è stato sempre tradizionalmente coltivato.
noce di Sorrento
A Sorrento cresce la varietà più pregiata del mondo (Juglans regia) cultivar Malizia.
Storia
Fin dall'antichità è stata considerata una pianta prodiga di frutti ricchi di principi curativi e dai semi prelibati, con un legno pregiato e facile da lavorare.
Per i Romani, le sue drupe erano un dono degli dei (Jovis glans, ovvero ghiandola di Giove), da cui deriva il nome botanico della pianta (Juglans). Essi si limitavano ad estrarne un olio profumato utilizzato in medicina.
La noce lunga di Sorrento, che cresce in Campania, in zone di bassa collina, ha il frutto affusolato che si apre con grande facilità, anche con le mani, perché il guscio non è spesso, il gheriglio rappresenta quasi la metà del peso totale. Senza contare che ha un aroma ed un retrogusto del tutto particolari.
Le noci sorrentine arrivano sul mercato in anticipo rispetto ad altri prodotti esteri.<<Le primissime, ancora acerbe, vengono vendute solo in Campania, tra fine agosto e i primi di settembre>>, hanno ancora il mallo e si lasciano a maturare così, finché non si aprono: sono davvero una chicca.
Dopo qualche tempo, si procede alla raccolta, ancora a mano, per mezzo di lunghe pertiche che fanno cadere i frutti a terra, poi si dispongono su graticci e, grazie al microclima sorrentino, sempre ventilato, dopo tre-sei giorni sono pronte per la rimozione del mallo ormai secco. Si lasciano allora a seccare in ambienti freschi e arieggiati, in sacchi, dove perdono fino al 20% di acqua.
Le prime noci sorrentine mature, ancora fresche ma già pronte per il consumo, sono sul mercato a settembre.
PROPRIETA' TERAPEUTICHE
Due studi, il primo condotto nell'università americana di Loma Linda (di qualche anno fa') e l'altro (più recente) in quella di Barcellona, hanno dimostrato che le noci contengono grassi benefici in grado di ridurre in maniera sensibile il colesterolo "cattivo" nel sangue.
Essendo poi ricche di sali minerali e di vitamine, quindi di antiossidanti, le noci possono contrastare l'invecchiamento cutaneo e cellulare, potenziando dunque le difese immunitarie.
Grazie al ricco bagaglio di composti fenolici, quali l'acido ellagico, le noci sono inoltre in grado di mantenere entro giusti limiti la percentuale di glucosio nel sangue e di regolare il metabolismo degli zuccheri (insulina).
In conclusione, basterebbe mangiare tre frutti al giorno per allontanare il rischio di infarto.
Con i frutti acerbi si prepara un liquore prelibato il NOCILLO
Cece di Cicerale
Terra quae cicera alit – terra vocata nella produzione dei ceci – è la frase che compare, accanto a una piantina di ceci, sullo stemma del comune di Cicerale e da cui, si pensa, derivi il nome stesso del comune. Prodotto assai ricco di potassio e di componenti essenziali, deve le sue caratteristiche organolettiche essenzialmente al terreno di produzione e alle metodiche rigorosamente tradizionali utilizzate nella coltivazione.
Il comune di Cicerale ne ha protetto la denominazione con un disciplinare di produzione che impone la coltivazione su terreni certificati biologici e ne vieta l’innaffiatura, per far si che, a un prodotto finale di dimensioni medie, corrispondano qualità organolettiche notevoli. Sono ottimi lessi in insalata con molluschi e polpi, oppure con la làgana, una sfoglia tirata a mano che si prepara anche con i fagioli. È stata inoltre avviata la pratica per la concessione dell’Indicazione geografica protetta.
fagiolo di Controne
Piccolo, rotondo e bianchissimo, senza macchie e senza occhi, il fagiolo di Controne ha una tradizione antica ed è particolarmente pregiato per l’alta digeribilità e per la buccia sottile, praticamente impalpabile. Ogni anno, l’ultimo fine settimana di novembre, Controne dedica una sagra al suo prodotto più celebre. In questa occasione è possibile acquistare i fagioli o degustare i piatti tipici della zona: fagioli al tozzetto (una piccola fresella condita con olio extravergine e legumi lessi in bianco), fagioli e scarola, pasta e fagioli, e ancora làgana (una sfoglia fatta a mano) e fagioli.
I produttori sono circa un’ottantina.
Cipolla ramata di Montoro
La coltivazione della cipolla è nata e si perpetua nella zona di Montoro Inferiore, centro abitato immerso nel verde e circondato da colline. La coltivazione di questo particolare prodotto si è estesa, nel corso degli anni, anche in altre zone della provincia di Avellino, soprattutto nei pressi di Montoro Superiore e Solofra. In quest'area ha trovato condizioni pedologiche e climatiche adatte alle sue caratteristiche organolettiche. Essa predilige per lo più suoli ben drenati e ricchi di sostanze organiche. Tra le varie specialità, la Cipolla Ramata di Montoro, spesso coltivata in combinazione con il mais, si raccoglie a partire dalla seconda metà di giugno e costituisce una delle produzioni di maggior rilievo tra le orticole della provincia. A differenza delle altre cipolle da serbo, essa presenta un'elevata tenuta alla cottura, caratteristica che si aggiunge alle già notevoli qualità organolettiche che la rendono un prodotto molto richiesto sui mercati nazionali e internazionali. Si presenta dolce al gusto e intensamente aromatica all'olfatto, ottima per qualsiasi preparazione alimentare.
Cipollotto nocerino
Essendo una cipolla a raccolta primaverile (da marzo a giugno) è utilizzata soprattutto per il consumo fresco, non avendo un'elevata propensione alla conservazione. Il "Cipollotto Nocerino DOP" deve le sue caratteristiche di pregio che lo fanno distinguere da altri analoghi prodotti soprattutto alle particolari ed eccezionali condizioni geo-pedologiche ove esso viene coltivato. E' noto che i terreni dell'agro nocerino-sarnese e dell'area stabiese-pompeiana, per la loro origine vulcanica, sono sciolti, pianeggianti e di elevata fertilità ed essi conferiscono ai prodotti agricoli locali caratteristiche di elevato pregio. Proprio, le condizioni edafiche e l'assoluta vocazionalità dell'ambiente climatico sono alla base dell'eccezionale valore qualitativo delle produzioni ortofrutticole dell'area. Per le sue caratteristiche qualitative ed organolettiche, legate soprattutto alla tenerezza del bulbo e alla dolcezza della polpa, poco acre e piccante, che ne fanno un prodotto di elevata digeribilità, è particolarmente richiesto sui mercati nazionali ed internazionali. Ricercato dagli chef locali è gustato quasi sempre fresco accanto ad insalate verdi, pomodori ma è presente anche in primi piatti ed utilizzato per guarnire tanti altri manicaretti d'autore.
Cenni storici
Testimonianze certe della presenza della cipolla nell'Agro risalgono ad oltre 2000 anni orsono: nella Pompei antica, difatti, cipolle locali sono raffigurate nei dipinti del Larario del Sarno, la cappella dove erano custoditi i Lari, gli dei protettori della Casa. Infatti anche a Pompei, come in Egitto e in Grecia, la cipolla, per i suoi effetti benefici e curativi, era considerata una identità sacra. Il dipinto sintetizza graficamente la realtà della varietà locale, che già all'epoca, rappresentava un'importante e tipica espressione della ruralità locale.